Tramonto sull’Etna
Il gruppo raggiunge Acquedolci e sembra che la giornata e la vita possano solo continuare così, sulla costa tirrenica, tra i rari dislivelli, le rupi, le baie e le torri antiche. Anche il vento duro del weekend sardo pare diventato una brezza che disseta. Tutto sembra conciliare la pedalata, anche la toponomastica: Acquedolci profuma di fresco e di granite, ci sono le Eolie in lontananza, si potrebbe fare un’escursione via mare, oppure tirare dritti fino a Messina e portarsi avanti con questo bizzarro progetto di risalire la penisola.
Invece il Giro d’Italia si fonda sulle deviazioni, è il principale esponente della teoria secondo cui il cammino più breve tra due punti è una retta, ma il più intrigante è tutto parabole ed ellissi. Ad Acquedolci, dunque, quattro fuggitivi anticipano il gruppo e svoltano a destra, attratti verso le viscere della Sicilia dalla voglia degli organizzatori e dal campo gravitazionale della Montagna. Perché, ok, prima tocca tagliare i monti Nebrodi, ma l’approdo finale di questo pomeriggio è un altro, non occorre certo scomodare Wikipedia per spiegarlo, è superfluo persino fermarsi in un bar e chiedere a qualche avventore dove ci troviamo? che sa dirmi di questi luoghi? il Giro ci manda in posti sconosciuti, lei sa raccontarmi qualcosa di più? Niente di tutto ciò. La quarta tappa finisce sul vulcano più attivo d’Europa. È “iddu”, è Pindaro ed Empedocle, è fuoco e lava.
Mentre il Monte Etna si profila in lontananza, il cambio di spartito s’intuisce nel rarefarsi del blu del Tirreno e nel prorompere del giallo di ginestre enormi: crescono solo qui, possono arrivare fino a dieci metri di altezza e si allargano in una folta chioma di giunchi. Cambiano registro anche i nomi dei luoghi: la prima salita di giornata è Portella Femmina Morta, lenta, con gli ulivi e gli aranci. La seconda è il Salto del Cane, si chiama così il versante dell’Etna scalato dal 100° Giro d’Italia, prende il nome da crateri verdissimi lungo le cui pendici cresce il pioppio tremulo. S’incontrano dopo aver superato una sfilza di cittadine con i viali neri di basalto, i campi fertili e i marciapiedi colorati di bambini: Bronte, Adrano, Biancavilla, Ragalna e infine Nicolosi, la porta dell’Etna, dove la salita comincia sotto un arco da cui pende una gigantografia di Michele Scarponi.
Ed è Paolo Tiralongo da Avola, 39 anni, grande amico di Scarponi, il primo a tentare di raggiungere Jan Polanc, l’unico superstite della fuga del mattino. L’età frena Tiralongo, il redivivo vento tutti gli altri. Ci provano Rolland e Nibali, ma l’aria oppone troppa resistenza, non consente grandi distacchi. Zakarin riesce a guadagnare una decina di secondi, Quintana veste i panni del favorito e si limita a controllare. L’ascesa verso il Rifugio Sapienza misura 17 chilometri e mezzo, pendenza media del 7%, ma è negli ultimi 5 chilometri che mostra la sua essenza. L’Etna si rivela nella categoria della desolazione: quella che incontrano gli occhi di chi scala, che cercano un appiglio a bordo strada e non trovano più alberi né arbusti, solo blocchi di lava nera; e quella di Polanc, il fuggitivo, che nell’ultimo chilometro è talmente stanco da ondeggiare come un pioppo. Procede a zig-zag. Si appella a Santa Agata, che protegge contro il fuoco e i fulmini, e viene esaudito: dietro di lui nessuno incendia la corsa, la battaglia dei grandi per ora è rinviata. Lo sloveno vince la tappa ed esulta come a un gol. Bob Jungels, il più costante tra gli uomini di classifica, indossa la maglia rosa. 25 anni il primo, 24 il secondo: il tramonto rosso del vecchio Monte stende un velo di giovinezza fino al golfo di Catania.